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Carolina Monaci
un passo alla volta senza mai fermarsi
INTERVISTA COMPLETA
se poi ti piaciono
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Già metà mattina. Mi sono mosso tardi. Guido sul lungo lago del Garda, direzione nord, verso la punta. Strada libera, campo visivo pieno, cielo turchino senza nuvole che satura il blu zaffiro del lago. Procedo dolce con un filo di gas e la fantasia nella bellezza del luogo; scorci sfuggenti si rivelano. Quanto tempo senza vedere questo lago, un lago. Non ricordavo un'acqua così blu, blu denso e profondo, ricorda quella dell'alto mare.
Arrivo al punto di ritrovo ma sono come trasognato, non mi sarei voluto fermare, desideravo che la strada continuasse: era come se quei luoghi di passaggio fossero miei. Sarà la pandemia, l'abitudine ormai a non muoverci; però è stato bellissimo e la voglia di ritrovare un'atmosfera così unge le parole.
La riconosco da lontano arrivare, per le foto che ho visto, e i bastoncini tra le mani sono certezza.
“Ciao Carolina”, e riprendiamo la chiacchierata interrotta settimane fa al telefono. É come se ci conoscessimo da tanto e lei mi accoglie ora come fece al telefono.
Pochi passi e siamo sul lago. La trasparenza azzurra dell'acqua sulla riva di sasolini ocra è commovente. Penso che un'immagine così sia sintesi della vita. L'azzurro fluido delicato fa specchiare il sole in bagliori di diamanti liquidi. Sarà sempre la pandemia, la giornata che richiama l'estate a infondermi questa emotività. Mi sento un po' assente. Solo una piccola brezza e la risacca ci accompagnano camminando bordo lago. Non incrociamo nessuno.
Cerco di concentrami, parlo con Carolina. Qui è troppo bello adesso, la luce è meravigliosa; non ho voglia di perdermi la realtà per fare delle riprese del luogo: non riuscirebbe mai un video a raccontare il mio sentire. Lascio tutto nello zaino e mi guardo attorno, libero.
Non tanto la divisa sportiva ma il fisico e la linea di questa donna esprimono il talento e la prestanza atletica di chi può vivere esperienze di qualità all'interno di una competizione così dura, estrema, come l'ultra trail nel deserto, una dimensione difficile da comprendere. Penso che un caldo così intenso, quello del deserto, non si possa immaginare, solo la sua presenza fisica, reale, può darne la cifra, e solamente a chi lo ha vissuto su di sé.
Cinque avventure attraverso quelle lande soffocanti quanto affascinanti, giacciono sotto i piedi di Carolina. Il deserto, il luogo estremo dove l'apparente assenza della vita, in contrasto con quella che dentro te pulsa, si muove invisibile, mentre il corpo esprime uno dei suoi massimi momenti di vitalità.
Qui il caldo è signore e Dio di tutto, l'acqua una parola assente nel suo vocabolario. Giorni e giorni di cammino, corsa, per arrivare, forse, alla fine. “Forse”, perché in condizioni così inaccessibili è un attimo perdere lucidità, interrompere l'ascolto del corpo e oltrepassare il limite, e se succedesse, potresti solo sperare che il medico di gara arrivi in tre o quattro ore; e già ti reputeresti fortunato.
Ma non penso a questo ora, qui, con Carolina al fianco. La vista al lago e l'udito per lei. Una panchina vuota osserva il panorama mentre le onde quasi ne accarezzano i sostegni. Non riesco a credere che l'acqua vicino a riva sia così celeste e lucente. É una grande fortuna vivere qui.
Ci sediamo sui gradini di una villa, forse abbandonata, lungo la spiaggia chiamata Oasi Paradiso.
Accendo il registratore, continuiamo a parlare.
Lo sguardo di Carolina è concentrato, rivolto al lago, all'acqua; lei che ormai da sempre vive qui, in questa vastità liquida dove si può specchiare quando vuole, ma mi parla e racconta di aver trovato attimi di felicità estrema, massima, dentro un mare di sabbia, calore, sofferenza: nel deserto, l'antitesi dell'ambiente che ora abbiamo di fronte. Eppure questo pensiero-metafora (distesa acqua/distesa sabbia) mi raggiunge solo ora: così tanta acqua nel suo quotidiano, così poca nelle sue gare; due facce della stessa natura.
Parliamo, io domando. Non ci guardiamo quasi mai. Lei mantiene lo sguardo rivolto alle onde, laggiù, dove giacciono i ricordi, talmente vivi e intensi da non essere collocati indietro, nel passato, ma là in fondo, quasi nel futuro, dove io non riesco a vedere. Mi affido a lei e la osservo leggendole negli occhi ciò che è difficile tradurre in parole.
Il vento si spalma sulle guance. Siamo uno accanto all'altra in una specie di confessionale all'aperto, affacciati al moto eterno del liquido vitale. Forse stiamo parlando a lui, emettiamo suoni perché siamo vivi; ci sarà un momento dove non parleremo più, e non più esisteremo, mentre le onde continueranno, per altri.
Nel deserto, con l'Ultra Trail, Carolina ha raggiunto l'essenziale. Ultra Trail significa distanze superiori ai quarantadue kilometri della maratona classica percorsi all'interno di ambienti naturali. Per correttezza andrebbe anche aggiunta (da definizione) l'acronimo XL “ultra xlong” cioè gare sopra i cento kilometri totali; gare anche di sei giorni con un unico giorno di riposo. Inutile dire quanto sia fondamentale la preparazione atletica, alimentare, psicologia, non solo per provare a portare a termine una gara di questa portata, ma soprattutto farlo avendo e mantenendo, per l'intera durata, una certa qualità dell'esperienza-gara. Se non ti sarai adeguatamente preparato l'avventura potrebbe diventare solo dolore, e l'unico ricordo che porterai nel cuore sarà la sofferenza nata e vissuta durante il tragitto, perché a te, partecipante sprovveduto, forse t'interessava solo esserci, per ottenere la medaglia da “finisher”, le foto per i social, per dire “io c'ero”; ma la persona immortalata nelle foto non sei tu, è un altro te, o meglio sei tu mostrandoti per quello che eri e sei, perché il deserto è capace di divenire specchio dell'atleta-uomo. Nel calore le sue dune diventano riflesso di te; e finita la gara, quando ti guarderai dentro capirai che tu lì, in quella esperienza-gara non ci sei mai stato: c'è stato di sicuro il tuo corpo ma era un cavallo abbandonato nella steppa, senza proprietà.
“Snobbare” è l'unico verbo che definisce la mia visione del nordic walking (NW), prima di ascoltare l'esperienza di Carolina. “Ho sempre pensato che fosse una pratica da sfigati il NW” le dico per provocarla un po', col sorriso. “Dai allora spiegami in cosa consiste” e inizia una semplice quanto esaustiva ricetta. Puoi andare a piedi ma devi necessariamente avere i bastoncini altrimenti tale disciplina svanisce. Assieme alle varie tipologie di marcia il fulcro principale è l'utilizzo dell'apparato superiore come coadiuvante per la spinta-progressione in avanti riducendo lo sforzo degli arti inferiori: devi trasformarti in una specie di quadrupede, questo è il principio. Semplice vero? Io però non ci avevo mai pensato usando da sempre i bastoncini come collaboratori dell'equilibrio.
Bene, mi si è aperto un mondo sentendo i suoi racconti: decine di chilometri, fino a divenire centinaia, attraversati alternando corsa e NW, quest'ultimo utilizzato soprattutto nei tratti dove la sabbia diveniva più permeabile al peso, o nei tratti in salita, sul terreno punteggiato di pietre. Certo, movimenti semplici come il camminare, correre, ma estremizzati se svolti all'interno di un contenitore bollente che non vuole moto, vita, ma l'immobilità, dalle superfici mutevoli e franose, che dilatano le distanze riempiendole di calore.
Nel deserto tutto tende all'inerzia, però gli occhi, alzandosi verso l'orizzonte, scorgono i flutti salire dal suolo, fatti di vapori, il paesaggio diventa liquido dentro la spietatezza del massimo calore esistente sulla terra; la realtà diviene evanescente.
Ragionando sopra le parole fluenti capisco che le chiavi per participare a un ultra trail nel deserto le puoi trovare facilmente, basta un sogno, un'illusione alla quale aggrapparsi, il denaro necessario per andare; mentre la chiave per uscirne te la devi costruire strada facendo, stando bene attento a non perderla lungo la distanza. Basta essere assente in un momento importante e tutto può svoltare al negativo, e inizia il naufragio.
Non solo la preparazione fisica “generale” ma anche l'allenamento mentale è fondamentale: come educare il fisico a bere poco ma spesso, e farlo sempre in allenamento, anche se ti alleni a una temperatura di dieci gradi, altrimenti anche tu ti potrai ritrovare a odiare l'esperienza che hai sognato, che ti devasterà il corpo, lo spirito, e arriverai forse al traguardo finale con un fisico talmente sfatto e sofferente da non avere nemmeno più un briciolo di gioia per accogliere la fine della fatica.
Malcesine ha un sapore di un'intimità antica, piccola, semplice; alcuni passaggi strettissimi conducono in corridoi affascinanti dove la pietra delle mura suggestiona per la possenza che esprime. Senti gli occhi del tempo che hanno visto passare moltitudini, e il futuro, con lo sciabordio dell'acqua che in lontananza va e viene trasportata dal vento, metronomo naturale e perpetuo che si incunea tra le calle.
Un panino fugace e andiamo in un bosco dove riprendiamo a parlare, partendo dalle origini, dai primi approcci alla disciplina del NW, le prime maratone, i primi passi mossi in gara sulle lunghe distanze fatte “intrufolandosi” tra i corridori. Arrivano i risultati che smuovono la fantasia, le coincidenze portano al primo deserto: la felice scoperta di sentirsi appartenere a un ambiente.
L'esperienza va avanti, gli ultra trail si sommano, e arriva l'esigenza di correre: allora perché non abbinare NW alla corsa? Detto, fatto. Altri deserti e altri risultati di prestigio, intensi momenti felici dentro l'abbraccio di una serenità costante ricercata e costruita nel quotidiano, che diventa fondamentale durante l'esperienza sportiva estrema per avere una riserva di energia.
“Un ultra maratoneta cammina con la testa mi dice”. Una frase legata allo sport che abbiamo tante volte sentito, di difficile vera comprensione per chi non ha mai provato esperienze atletiche di livello, cercando raggiungere il suo limite, ma che nel ripetersi di questa frase risiede il peso determinante che ha nel risultato finale. Ascolto e comprendo questa dimensione, che ognuno di noi può sviluppare senza rendersene conto anche nel quotidiano vivere, come Carolina mi dice, nelle quotidiane fatiche della vita.
In condizioni così roventi, faticose, emerge chiaro dalla voce di Carolina, una signora del deserto, l'accento sull'allenamento mentale: il vero viatico dell'ultra trail. Adesso sembra quasi sprezzante nel parlare del deserto, avendo appreso, con l'esperienza, la formula per vincerlo. E con semplicità ammette che tutti quanti potremmo intraprendere e terminare un'avventura del genere, un ultra trail nel deserto, con l'impegno e l'imprescindibile affiancamento a dei professionisti del settore. Niente di semplice certo, ma come ricorda lei, dando voce al suo motto, il segreto è: “un passo alla volta senza mai fermarsi”.
Attenzione: bisogna prepararsi anche ad altro, soprattutto per quando arriva la solitudine, che colma le trame di questo luogo misterioso, magico, arido, affascinante; solitudine che nel deserto è collante del tutto, incapace di evaporare, che appesantisce il corridore angosciandolo.
Dentro il mare di sabbia Carolina si è mossa, ha viaggiato per i molteplici e articolati universi dell'anima, attraverso il carattere del deserto, dentro la sua essenza, che emerge, col passare del tempo, muovendosi in esso.
Tu Carolina, del deserto, hai molta esperienza, hai capito che dopo aver lasciato tanta energia alle spalle devi stringere i denti per alleggerirti ancora, per scivolare sopra la sua pelle di sabbia, di sassi, di puro calore; leggera zampetti delicata fluttuando sopra gli attriti, per limitare lo sforzo, risparmiare energia, preservare acqua. Un altro passo, la stessa concentrazione, perché nella impraticabile vastità del deserto, anche una scarpa che si rompe ha la sostanza della fine. Tu questo lo hai visto Carolina, potevi essere tu l'atleta al quale è successo, ma non è toccato a te essere veicolo di una delle infinite manifestazioni della sfortuna. A te il deserto ha voluto bene, è stato facile per te comprenderlo e amarlo, naturale. Hai intuito subito che ti saresti dovuta a lui conformare, non resistere a nessuno dei messaggi che t'inviava, ma accoglierli; e accogliendoli il deserto ti ha stretto nel suo abbraccio lasciandoti spazio per andare; e tu in lui hai viaggiato, molto.
Adesso siamo seduti nel bosco. Guardo il paesaggio dall'alto dove le torri del castello spuntano dai rami spogli qui davanti.
Tu osservi il lago che per l'altezza si è fatto più vasto; ampio come l'orizzonte che si plasma dopo i primi chilometri di gara, quando, ovunque si puntino gli occhi e le speranze, non vedi nessuno. Dopo altra strada nuovamente alzi lo sguardo ma ancora nessuno ti attende. La solitudine è arrivata, con il suo “silenzio tombale” che opprime. Dentro questa atmosfera viene naturale accogliersi da sé: i ricordi emergono delineandosi fluidi dentro la fatamorgana, assumono aspetti diversi, e il proprietario della memoria scorge in loro nuovi significati, verità autentiche, paure forse mai confessate. Continua il cammino, gesto involontario ormai, la mente corre su altro; è il momento che aspettavi, la rivelazione che condensa tutto ciò che è passato, tutti i desideri nati ma mai diventati azione. Il limbo del possibile viene soffocato dai ricordi dell'allenamento quotidiano, fatto per arrivare dove il desiderio vero ti ha chiamato, nel deserto, perché quella voglia, più forte delle altre, reclama il suo futuro, che è realizzazione del sogno.
Capisci e vuoi condividere quanto sia importante dare voce, sotto forma di parole, alla sostanza che ti porti dentro, a ciò che hai capito: se vuoi arrivare al traguardo facendo sì che l'esperienza sia di qualità, devi abbandonare ogni più piccola zavorra, granello di rimpianto, verità dolorosa; anche trovare il coraggio di dire a qualcuno che lo hai amato nel silenzio per tre anni ma non c'è stata acqua che ha amalgamato l'argilla. E mentre cammini afferri che lo farai, glielo dirai, ne prendi coscienza e pesi subito meno: hai nuova energia, e quella serenità che tanto ricerchi.
Il traguardo di fine gara diventa relativo: altri e molti traguardi, solo tuoi, raggiungi mentre cammini, corri, in un deserto che ti isola facendoti ritrovare, con un'onestà che quasi sconvolge talmente è cristallina, nuovi significati di te. Il ribollire dell'anima che respiri non lo trattieni, lo lasci andare, l'accetti, e, senza sapere come, diventa nuova linfa. Ogni pensiero ritrova il suo posto, e arriva la quiete.
È difficile, tutto, ma non devi mollare. Allora sotto con i bastoncini perché quella gamba duole e va aiutata, altrimenti c'è il rischio d'interrompere il dialogo, separarti da te, e tu non vuoi perdere questi attimi importanti, essere distratta dal dolore, dalla fatica sì, ma non dalla sofferenza. La stanchezza sai sublimarla in risultato mentre l'esperienza umana che vivi evolve, che è la vera ambizione tua, il tuo vero arrivo.
Ti sei sentita colomba bianca che attraversa il deserto. Sei stata colomba bianca imprigionata nei deserti delle relazioni umane, sempre i più difficili da attraversare, per i quali la preparazione non basta mai; non c'è ricetta, integratore alimentare o emotivo: bisogna cavarsela da sé, e il tuo passato di donna è la determinazione che ti farà arrivare prima, dopo sei giorni di gara e 250 chilometri alle spalle, dentro il gigante più caldo del pianeta.
Dall'alpinismo alla disciplina attuale sottolinei che non hai mai preso i vizi caratteriali degli uomini, e hai dimostrato che una donna non ha bisogno di rassomigliare all'indole di un maschio per eguagliarne le capacità atletiche; troppo facile e snaturante, anche avvilente, fare così. Tu non sei una da scorciatoie.
Nei deserti molti uomini li hai lasciati dietro di ore, rimanendo dolce e autentica come sei, senza che l'entusiasmo per un sogno da compiere diventasse arrivismo sterile, contagio dell'anima.
Nel tuo peregrinare hai imparato tanto: “la felicità è istantanea, la serenità è costante ” mi dici.
Che tu possa essere sempre serena, Carolina, nel cammino dentro il tuo tempo.
Davide Riva

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